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I colori del mare - Dario Bilotti

Tratto da "Il racconto del mese" del mensile "Il Corriere di Carmagnola"

mare burrasca

racconto logo

La luce filtra tra nuvole candide, gonfie, vaporose come soffici ammassi di cotone, rendendo azzurro il grigio che ci abbacina, riflettendo sulle superfici lucide e lisce delle sovrastrutture. Sotto, il mare blu scuro occhieggia; lampi di bianco mi costringono a socchiudere gli occhi, il cielo fa capolino tra cirri orlati di grigio, la brezza increspa la superficie e aumenta la riflessione dei raggi solari. Faccio fatica a guardare. I miei occhi azzurri cercano requie non sopportandone la luminosità intensa, ma piccole lacrime leniscono il bruciore. Le nuvole si colorano di grigio; laggiù una netta linea divide l'acqua davanti a noi, il blu profondo si trasforma in nero con un taglio parallelo all'orizzonte. Con un fascio che s'allunga man mano che scende dal cielo la luce crea coni abbaglianti che si spostano con disordinata eleganza quasi a ballare per noi, a deliziarci con voluttuosi volteggi. La prora taglia l'acqua e sembra voglia correre verso l’ignoto, verso il buio. L’aria mi colpisce il viso, ne faccio incetta, me ne riempio i polmoni e ne assaporo il gusto. Una parete scura si avvicina, sembra ancora lontana, un drappo che sta avvolgendo con un colore antracite tutto il microcosmo attorno a noi, fatto d'acqua e d'aria; la luce con riflessi celesti combatte come non volesse lasciarci. Ma il nero è già qui, si impadronisce di noi, l'azzurro è scomparso, il cielo e il mare si fondono in un unico colore, le nuvole gonfie di pioggia si avvicinano con veloce violenza. L'acqua cade a ondate successive, lasciando larghe scie informi sul mare ormai diventato pece. Tutto assume tonalità scure, faccio fatica a distinguere i contorni familiari. Il refolo trasformatosi in vento crea bassissime barriere che corrono sulla superficie, sottili lingue serpeggianti di chiara spuma che velocemente passano lasciando strada a quelle successive, scivolano sotto la chiglia come se prima di incontrare lo scafo si immergessero per non interrompersi. La pioggia diventata insistente scorre sui ponti, dalla tuga di prora scende acqua a fiotti, cade in coperta con rumore soffuso sovrastato dal vento e dallo scroscio delle onde sullo scafo. Un rollio leggero accompagna ogni movimento, nessun fastidio, anzi, è un piacevole danzare immersi in una musica di naturale prepotenza, il beccheggio praticamente inesistente crea qualche piccolo sbuffo a prora, minute gocce formano una leggera nebbia che cela per un istante alla vista quanto sta avanti a noi e lo sciabordio che lo accompagna ci rende forti.

Noi siamo coloro che temiamo il mare ma abbiamo il coraggio di sfidarlo..

Poi tutto si schiarisce; il blu torna blu, il grigio torna grigio, il bianco ritorna ad abbacinare, il cielo si riprende l'azzurro che gli spetta e il calore torna ad allietare le anime. Nuvolette di vapore si alzano dalla coperta che muta colore pian piano e la grande nave grigia prosegue il suo cammino. Più forte che mai, più decisa che mai, più amata che mai.

Dario viso Dario Bilotti

Colori mare

 

timone

 

 

 

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Vacanze sotto la neve - Dario Bilotti

Dal "Racconto del mese" del Corriere di Carmagnola, un'altra storia di Dario Bilotti

caminetto

Il racconto del mese... Vacanze sotto la neve

Entrò in casa, velocemente si spogliò e depose tutto il vestiario sul letto, si infilò nella doccia, si fece la barba, si vestì con abiti puliti e dopo aver preso la borsa con i suoi effetti personali e qualche cambio di biancheria intima, preparata la sera prima, uscì di casa. Come si suol dire la fretta gli mise le ali ai piedi. Fortunatamente abitava vicino alla stazione ferroviaria e questo gli permise di giungere al treno cinque minuti prima che partisse. Il viaggio fino al paese sotto le montagne durò un'ora. Sceso dal treno attese il pullman che lo avrebbe portato al paesino dove finalmente avrebbe riposato una settimana, ospite della sorella Francesca e del cognato Paolo e festeggiare l'imminente Natale e l'arrivo del nuovo anno. Altre due buone ore di torpedone lo attendevano. Si mise comodo vicino al finestrino con l'intenzione di leggere un po' sfruttando la poca luce diurna rimasta. Ben presto si addormentò; si svegliò alla prima fermata dove salì una marea di gente che riempì ogni posto disponibile. Una voce femminile lo distolse dai suoi pensieri chiedendogli se il posto accanto al suo fosse occupato. "Prego, si segga pure, è libero ''Il giovane notò subito il bel visino della ragazza che gli si sedette accanto dopo essersi tolta il piumino che l’avvolgeva; profumava di fresco, trucco ridotto al minimo, era veramente carina. Ma si rituffò nella lettura fino a quando di riaddormentò. Quanto tempo dormì non lo calcolò ma si destò sentendo il rumore del libro caduto sul pavimento e subito dopo vide la mano della ragazza che dopo averlo raccolto glielo porse.

"Mi scusi, sono talmente stanco che non riesco a tenere gli occhi aperti”

"Ma le pare, capisco" rispose lei. Il ghiaccio si era rotto.

"Visto che il viaggio sarà relativamente lungo, la tengo sveglio", continuò lei.

"Mi chiamo Elda, ho affittato un alloggetto a Boscosotto, una settimana di relax estremo con tanta neve attorno, spero, per dedicarmi follemente alla lettura". "Piacere, io sono Giacomo. Sto raggiungendo mia sorella alla frazione di “Betulle". Intervenne un signore seduto su uno dei sedili davanti ai loro che avverti Giacomo che alla frazione il pullman non arrivava, era oltre Boscosotto e che la strada era praticamente un sentiero sterrato talmente stretto che una vettura o saliva o scendeva, due contemporaneamente non ci stavano. Giacomo già lo sapeva, d'altronde il cognato aveva affittato la baita appunto per godersi le ferie in inverno e in montagna, e si ricordò che avrebbe dovuto chiamare la sorella per comunicarle l’ora d'arrivo. Cosa che fece, poco campo ma riuscì finalmente a prendere la linea. Apprese dalla viva voce di Francesca che la neve già scendeva copiosa da circa due ore, quello sciagurato del marito non aveva gomme termiche e aveva dimenticato le catene a casa. Aggiunse che aveva paura di viaggiare visto che la strada non si vedeva addirittura più. Un bel problema. Giacomo divenne nervoso e si chiese: questa è l'ultima corsa, se non viene a prendermi cosa faccio, dormo in piazza sotto la neve?  Elda si accorse dell'inquietudine del ragazzo e senza che lui le spiegasse il disagio, capì. Lo rassicurò che in qualche maniera avrebbero trovato una soluzione. Nel frattempo, come prospettato, la neve cominciò a imbiancare il paesaggio. Giunti finalmente a Boscosotto, Giacomo richiamò Francesca e questa, disperata, gli disse che mai e poi mai sarebbero scesi a prenderlo. Si scusò preoccupata perché non sapeva cosa fare, ma d'altronde il rischio era troppo. Elda decise d’impulso. “Dai Giacomo, vieni da me, ci sistemiamo almeno per stanotte in qualche maniera, non ho idea della casa, ma siamo giovani e ci adatteremo"Scesi dal pullman e scaricati i bagagli, cominciarono a chiedere ai paesani infreddoliti nell’unico bar del luogo la casa a cui erano destinati. Gentilmente li accompagnarono fino sull'uscio. Casa in pietra, portone in legno molto spesso e alquanto grezzo, dimostrando la bellezza della vetustà. La porta d'ingresso era aperta, come si usa ancora nelle zone in cui l'onestà è un principio di vita. Basta girare la maniglia. Entrati in casa attendeva loro una bella sorpresa. Tutto rigorosamente in legno, la cucina dotata di ogni cosa, un tavolo in massello spesso dieci centimetri, due sedie e due panche in fondo alla stanza quasi in un angolo e al centro una stufa a legna di ceramica con la canna fumaria che saliva e forava il soffitto. La stanza era enorme, la stufa era accesa, il legno crepitava nel forno della stessa e di fianco una gran-de cesta piena di legna da ardere. Il proprietario aveva pensato a tutto. Addirittura il frigo conteneva prodotti mangerecci di varia natura. Dal lato opposto del tavolo una scala, anch'essa in legno, conduceva al piano superiore. I due la impegnarono e aperta una porta ne videro altre due chiuse. Una conduceva alla camera, con un letto da una piazza e mezzo che odorava di legno, lenzuola pulite e un grosso armadio, vuoto. E poi il bagno, vasca, doccia, mobile con lavandino e specchio. Ma ciò che più rendeva fenomenale l'ambiente erano due grosse e pesanti tende che celavano due finestre, una che apriva lo sguardo su un pianoro che conduceva alla base della montagna e una con lo sguardo sulla piazzetta, dove due lampioni illuminavano con una luce rotonda e gialla il selciato interamente coperto di neve. Una vista fantastica. La canna fumaria anche qui nel centro stanza fungeva da diffusore di calore, infatti la temperatura era tale da poter permettere di stare in maglietta. Tornarono di sotto e si prepararono da mangiare. Nel mentre studiavano la sistemazione per la notte. Ulteriore telefonata di Giacomo alla sorella per tranquillizzarla e rimandare a poi le decisioni per i giorni a venire. Ormai la confidenza la faceva da padrone tra i due giovani. Avrebbero dormito lei sul letto e lui per terra su un piumone, relativamente vicino alla canna fumaria e coperto con un pesante plaid. Rimasero a parlare fino alle ore piccole, poi quando la stanchezza cominciò a farsi sentire decisero di andare a dormire, Giacomo voleva provare a farsi il bagno nella vasca, chiese il permesso alla sua gentile ospite e lo ottenne, attese che Elda si ficcasse, dopo le abluzioni, sotto le coperte e poi riempì di acqua calda l’enorme catino e ci si adagiò. Quando si rese conto che rischiava di addormentarsi in acqua a malincuore uscì. Si asciugò per bene, silenziosamente entrò in camera e si adagiò sul relativamente scomodo giaciglio. Si addormentò. Il problema fu un paio di ore più tardi, si svegliò, la temperatura era calata, occorreva attizzare il fuoco nel camino. Si alzò e scese al piano inferiore, infilò nel forno due bei ciocchi di carpino, attese che le fiamme avvolgessero la legna e tornò su a dormire. Si riaddormentò e questa volta lo risvegliò la voce suadente di Elda che lo invitò a dormire accanto a lei. Giacomo era titubante, gli sembrava di approfittare fin troppo dell'accoglienza, ma l'insistenza di Elda lo convinse. Lontano dal camino l’aria era fresca quindi tremante si infilò sotto le coperte. La simpatia e la gioventù ebbero il sopravvento. Fecero l'amore. Giacomo si addormentò per l'ennesima volta, felice e appagato iniziò a sognare.

Una voce lo chiamò:

"Giacomo, sveglia, sono le sei » e lui "Perché mi svegli?”.

"Devi andare a lavorare"

“Ah, già, grazie mamma”.

Dario viso Dario Bilotti

vacanze sotto la neve

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Alta valle di Lanzo - Forno Alpi Graie - Dario Bilotti

Dal Mensile "Corriere di Carmagnola" il Racconto del mese ... naturalmente di Dario Bilotti 

foto stambecchi

Mi hanno avvertito che sotto il costone che sovrasta il paese si sono intravisti degli stambecchi. Non ci penso un attimo. Entro in casa, mi infilo il giaccone e mi allaccio velocemente gli scarponi, prendo la mia fida Canon e mi sposto lungo lo stradone per localizzare una piccola radura, calcolando la via per giungervi prima dell'arrivo degli ungulati. Nascosto dalle betulle e dai faggi durante l'ascesa, velocemente ma ansimando e sudando, raggiungo il piccolo prato. Sta nevicando leggermente, i piccoli fiocchi gelati mi colpiscono il viso come punte di spilli, la giacca si è inzuppata, i calzoni sono fradici, ma la frenesia messa in campo per salire non mi impedisce di gioire, nella speranza di raggiungere lo scopo prefissato. Con una breve riflessione mi rendo conto che nel loro spostamento devono obbligatoriamente passare di lì. Noto una fenditura nella roccia, alla sua base e incastrato al suo interno un masso che potrebbe fungere da sedile. Comodamente seduto ma con le spalle e le braccia pressate dalla roccia attendo paziente che gli  animali mi passino davanti, sperando di non essere visto e di non spaventarli con lo scatto della macchina fotografica. Quando comincio a risentire sulle natiche la durezza della pietra sono ormai passati circa trenta minuti, le spalle e le braccia costrette alla scomoda posizione sono anchilosate, le mani sono gelate facendo blocco unico con la reflex, la pazienza è arrivata al limite. Penso che probabilmente mi hanno visto o sentito il mio odore. A fatica esco dalla fenditura, metto i piedi sulla bassa erba e nel momento che inizio la discesa per tornare a casa sento un paio di tonfi, come se due pesi toccassero pesantemente il terreno. Giro lo sguardo e vedo a circa cinquanta metri tre stambecchi che saltando di roccia in roccia si stanno avvicinando alla mia posizione. Il tonfo udito non era altro che il rumore prodotto dagli zoccoli quando toccavano le zone erbose. Velocemente mi riposiziono nello scomodissimo luogo appena lasciato, le braccia attaccate al torace, la macchina davanti agli occhi e il dito indice, gelato e quasi insensibile sull'otturatore. Ed ecco che il primo paio di corna fa capolino dietro una pianta, ho paura che senta il battito del mio cuore che pulsa all'Impazzata, tum  tum  tum,  attendo che si presenti  davanti a me e scatto la prima posa, ... clack! Nel silenzio assoluto, a parte il mio tum  tum che sento solo io, lo splendido animale volta il muso nella mia direzione e io, come fossi una statua, non muovo un solo muscolo. Altri stambecchi raggiungono la radura davanti a me e cominciano chi a brucare erba e chi a mordere i nuovi germogli di questa primavera, altri si strusciano sui rami spogli per togliersi il pelo invernale e tutti a girarsi verso me udendo i clack clack. Fermo come sono, ho tutti i loro occhi puntati su me, immagino non mi vedano, ormai faccio parte della montagna. Ma ferale notizia, il pulsante dell'otturatore non scatta più, finita la pellicola. Cosa faccio, scendo? Potrebbero attaccarmi? Ipotesi scartata subito, si spaventeranno e questo mi spiace, ma non posso attendere oltre. Mi muovo disincastrando le spalle, allungo le gambe e con un salto tocco l'erba della piccola radura. Come prospettato ha inizio un fuggi  fuggi generale, tutti scappano verso il costone alla mia sinistra e nel giro di pochi secondi scompaiono alla mia vista. Finalmente riesco a sciogliere i muscoli e a scaldarmi, cerco lo splendido branco e li vedo, si sono fermati a un centinaio di metri da me, in alto, su una parete praticamente verticale, il più grosso, quello che si presentò per primo, volta il capo e mi guarda. Mi chiedo se il suo sguardo è di sfida a raggiungerlo, ma l'emozione e la bellezza di quanto visto mi basta... e poi non sono una capra. Addio e grazie.

Dario viso Dario Bilotti

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Una passeggiata invernale - Dario Bilotti

Il nostro Dario ci delizia ancora con un racconto breve pubblicato sul Corriere di Carmagnola

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Una passeggiata invernale

I cani escono veloci fuori dal cortile felici di passeggiare. Il tempo di chiudere il cancello e di avviarmi che una strana sensazione mi prende. Mentre imbocco la strada che tortuosamente si snoda tra i campi mi accorgo dell'immenso silenzio in cui sono avvolto. La foschia che ho davanti mi copre leggermente la visuale dell'orizzonte prossimo. Il fosso che costeggia la strada, nonostante sia pieno d'acqua, non emana alcun rumore; la superficie è liscia e vedo distintamente il fondo, neppure una piccola onda ne copre la visione. Lontano si staglia il bosco del Merlino, una lunga  striscia grigio scuro si innalza da un campo e nella parte superiore i rami spogli si allungano a interrompere il colore plumbeo del cielo. Associo quanto vedo a una spazzola di saggina coricata sul dorso con le setole consunte che irregolarmente interrompono la loro linea. Delle macchie più scure risaltano, quasi nere e in verticale, sono sicuramente alberi completamente ricoperti dall'edera che finirà per soffocarli, toglierà loro l'energia, la luce e il nutrimento, la vita. Nessun rumore, sono immerso in un mondo ovattato, sarà la nebbia che azzera le sonorità penso... o che abbia problemi d'udito? Pur trovandomi bene in questo silenzio cerco di captare un qualunque suono. No, non sono sordo, lontano, sul bosco, il caratteristico fischio di un falco, flebile, ma udibile in questa cappa e poi il gracchiare di una cornacchia, il martellante battito di un picchio e il tipico verso della gazza. Più vicino la strada della variante è priva di traffico, sulle rotaie della vicina ferrovia nessun treno, nessun trattore è al lavoro. Un micromondo a mio piacere. Lo scorrere della fettuccia dei guinzagli e l'ansimare dei cani mi riportano con lo sguardo sul sentiero. Mi cade l'occhio nuovamente nel fosso e vedo una foglia staccatasi non so da dove che, appoggiata sulla superficie dell'acqua, scivola calma con il picciolo che si erge in perpendicolare, come fosse l'albero senza vela di una barca. Il ruscello taglia anch'esso i campi correndo parallelo alla strada e l'unico colore che rompe la monotonia di questo mondo in grigio è il verde del nascente grano che si sta appropriando di appezzamenti tra altre superfici arate e fresate, che dormono e riposano nell'attesa del prossimo risveglio. Una leggera e fresca brezza sposta impercettibilmente gli alti ma rari fili d'erba che hanno avuto il coraggio e la forza di crescere. In alto il sole è coperto anch'esso da una sottile coltre che ne fa intravedere  il chiarore, ma si pone come insormontabile ostacolo al suo calore. E arrivo nel punto dove il fosso ha origine, dove si crea questo piccolo emissario scavato a scopo irriguo. I salici  che con le loro radici mantengono compatte le rive del Meletta, capitrozzati, hanno ai loro piedi i rami da essi tagliati, ben sistemati in grosse fascine che attendono il ritiro  da coloro che ne faranno legna da ardere o manici per attrezzi da lavoro.  Decido di seguire la riva del corso principale e risalire lungo la sua riva sinistra. Dopo un paio di anse un forte rumore, uno sciabordio che quasi mi spaventa, presumibilmente una nutria si è immersa spaventata alla vista dei cani che mi sopravanzano. E poi dopo altre  anse una figura scura scende galleggiando nel centro del torrente, è spaventata dai cani e con gran rimestio d'acqua, il sibilo particolare del suo battito d'ali e il suo anatrare si alza in volo. E' un germano reale. E sale in alto iniziando a percorrere un tragitto circolare, come volesse tornare sul luogo da dove è partito, ma poi la nostra presenza lo costringe a desistere e si allontana. La sua tipica immagine  diventa sempre più piccola, percorre poca distanza e finisce per confondersi nel grigio. Ma è ora di rientrare, ripercorro a ritroso la strada fatta. Un latrato lontano blocca il passo dei cani che si fermano e voltano il muso verso l'origine del suono. Molto lontano vedo una piccola macchia bianca che risalta su una verde superficie, si muove lentamente, sembra voglia seguirci. Probabilmente il cane della cascina che intravedo quando passeggio  ritiene doveroso farci sapere che è meglio tenerci lontani. Ma due “abbaiate” dei miei sono probabilmente un deterrente, si ferma, si gira e caracollando torna a casa. Comincio a risentire del venticello fresco che mi sta raffreddando la parte scoperta del capo, quindi aumento il passo e già sogno il tepore del camino, forse per quello la strada del ritorno sembra più corta. Entro in casa, la poltrona mi aspetta e un caldo alito pure. Neanche il tempo di bearmi del calore che mi assale il sonno...e un sogno.

Un film in bianco e nero, come i miei lontani ricordi.    

Dario viso Dario Bilotti

Racconto Dario3

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Una battuta di pesca fatale - Dario Bilotti

Dal Mensile "Corriere di Carmagnola" il Racconto del mese ...  come sempre di Dario Bilotti 

pescatori professionisti

Il racconto del mese … Una battuta di pesca fatale

Raggiungo Cuorgnè mentre inizia ad albeggiare, è primavera inoltrata, ma l'aria mattutina è ancora alquanto fresca. Improvvisa mi sorge la voglia di un caffè e di un cornetto. Trovo un bar aperto e mi ci infilo. Il titolare dell'esercizio mi squadra dalla testa ai piedi e esordisce con: "viene da fuori? non l'ho mai visto". Gli spiego che voglio salire in valle Orco per andare a pescare, perché  trote e temoli mi attendono. Il curioso e gentile signore mi consiglia di andare in Val Soana, meno battuta in quanto scomoda, ma con zone di pesca sicuramente più appaganti seppur con meno pesce. Realizzo subito che detto da un paesano  potrebbe essere vero e già mi immagino enormi prede. Esco dal bar e dopo aver attraversato il ponte sull'Orco comincio a salire, attraverso paesini arroccati ai lati di una strada tortuosa costeggiante il torrente e dopo qualche chilometro  finalmente la salita aumenta la pendenza e comincio a non vedere più lo scorrere dell'acqua. Non trovo alcuno spazio dove parcheggiare e quindi continuo a salire. Poco prima di una curva finalmente uno spiazzo. Mi fermo e prima di cominciare la vestizione, attraverso la strada per avere un'idea della zona di pesca dove poter appoggiare le mie mosche finte. Il torrente è a circa trenta metri sotto la strada, incanalato in una forra dalle pareti a strapiombo e con tanta vegetazione, alberi d'alto fusto che tendono verso l'alto tra cespugli e rocce in bilico sul bordo. Sotto fa bella mostra di sè una immagine da cartolina. Tra due rocce una cascata, una sorta di invaso largo più o meno venti metri per quindici  che ne accoglie l'acqua e l'uscita della stessa dietro un enorme masso con una parete perfettamente verticale. Memore delle mie ricerche di funghi quando, per raggiungere appezzamenti che immaginavo fruttuosi, mi aggrappavo ai rami delle piante per scendere o per salire, mi convinco che adottando lo stesso metodo il risultato finale dovrebbe essere il medesimo. Torno alla macchina, mi infilo gli stivali tutta coscia, indosso il giubbotto dopo aver controllato il contenuto, mi metto a tracolla il contenitore di alluminio della canna da mosca, la mia fedele Loomis e comincio la discesa. Ripongo gli occhiali nella custodia e infilo anch'essa in un tascone, dovessero cadermi da basso dovrei accendere un mutuo. I primi cinque metri di discesa sono relativamente agevoli, poi iniziano i problemi. Lo strapiombo diventa sempre più pericoloso, i lunghi fili d'erba umidi non permettono la presa sul terreno della suola di gomma degli stivali, la custodia della canna da pesca si impiglia sempre più spesso sui rami più bassi, devo fare attenzione alle piante perché alcune sono morte e quindi non offrono la necessaria sicurezza, addirittura non vedo neppure più l'acqua, ne sento solo il rumore e ho paura di essermi allontanato. Continuo la discesa con sempre più apprensione, getto uno sguardo in alto e presumo d'essere arrivato a circa metà percorso. Mi fermo un attimo, nonostante la poca luce e il freddo sono sudato marcio, le braccia e le mani mi fanno male, ho graffi dappertutto e macchioline di sangue mi sporcano la pelle. Delle foglie si sono infilate tra schiena e camicia attraverso il colletto e mi solleticano e  pizzicano la pelle, però o mi reggo o mi gratto. Preferisco reggermi. E continuo a muovermi, come Tarzan, tra una pianta e l'altra continuando a scendere ed eccolo  l'invaso. Splendido. L'acqua è talmente trasparente che vedo il fondo notando il colore di ogni singola pietra, l'esperienza mi dice che la profondità si aggira intorno ai quattro metri. La cascata è talmente verticale che sono pochi gli spruzzi che disturbano la superficie tanto che essa sembra quella di un calmo lago di montagna. Calcolo che per arrivare all'acqua ci saranno si e no un paio di metri quindi un ultimo sforzo e poi quelle enormi figure scure che vedo nuotare  a un paio di metri di profondità e che salgono i superficie per catturare gli insetti saranno mie. Per riprendere nuovamente fiato me ne sto seduto su un masso, l'unico in mezzo al bosco verticale e comincio a preparare l'attrezzatura. Tiro fuori dalla scatola un paio di mosche finte, grosse e marroni sono l'imitazione della friganea, limo l'ardiglione dell'amo per non rovinare eccessivamente le labbra dei pescioni che mi appresto a catturare, visto che poi li rimetterò nel loro elemento. Mi alzo e dopo aver riposto in zona comoda le esche finte compio l'ultimo sforzo. Ed eccola la zona di pesca. Tra la parete e l'inizio della zona bagnata dall'acqua non c'è più di un metro e mezzo di sabbia e ghiaia che dolcemente declina verso il profondo. Mettendomi con le spalle attaccate alla parete e con una tecnica particolare di lancio dovrei riuscire a lanciare la mosca circa a metà invaso. A quaranta centimetri d'altezza dalla spiaggetta esce in orizzontale il tronco di una pianta che dopo un paio di spanne o poco più sale in verticale, il giusto appoggio di un piede " stivalato" prima di appoggiare l'altro sulla riva. Dopo aver saggiato con un paio di pestoni la consistenza del tronco ( quando sono solo aumento la prudenza)  ci appoggio sopra un piede poi mi ci siedo con le gambe a penzoloni... e il tronco si spezza sotto il mio peso.  I piedi toccano la ghiaia mentre il legno prende la via del fondovalle, accidenti a me, penso, alla faccia della prudenza, avrei dovuto accorgermi che l'albero era marcio. Ma mi rendo conto che lentamente sto sprofondando nella ghiaia, una superficie instabile che piano piano sta scivolando verso il centro dell'invaso, non ho appigli alle mie spalle, il ramo più vicino non è raggiungibile senza il tronco che si è rotto.  Più punto la schiena verso la parete più la ghiaia scivola in avanti, se mi metto in verticale aumento il peso e quindi sprofondo ulteriormente. Faccio una rapida disamina di quanto mi sta succedendo: se urlo non mi sente nessuno, se mi agito peggioro la situazione. Mentre la discesa diventa inesorabile cerco di liberarmi del peso superfluo, mi sfilo il contenitore della canna e lo butto due metri più in alto sperando che raggiunga il masso su cui ero seduto, stessa sorte del giubbotto ma che non arriva a destinazione, cade in acqua a due metri da me; mentre l'acqua è arrivata all'altezza delle ginocchia mi rendo conto che anch'io sto scivolando verso il centro del bacino e realizzo che se gli stivali si riempiono d'acqua non ho scampo. Cosa che lentamente si sta avverando, comincio a sentire l'acqua gelida che mi sta bagnando i calzoni all'altezza delle cosce, poi il freddo mi attanaglia la pancia, lo stomaco e ho un blocco del respiro quando mi si  bagna il petto. Cerco di girarmi verso la roccia per aggrapparmici con  le unghie, ma ogni movimento smuove ancor più la ghiaia. Cerco di rimanere mentalmente freddo per trovare una soluzione, l'unica sarebbe sfilarmi gli stivali e lasciarmi andare nella corrente sperando che oltre la roccia sulla cui parete scorre il torrente non ci siano sorprese, ma la cosa è impossibile da fare. Oppure sperare che... immaginare un... con un po' di fortuna...No, è passato il tempo per la soluzione, il freddo mi assale, batto i denti e questo mi impedisce anche di pensare. Ormai spaventato e deluso per questa fine orrenda, in un attimo mi passa davanti ogni istante della vita vissuta che, nonostante le rogne inevitabili, è stata felice. Aosta, Torino, la Marina Militare, mia moglie che non mi vedrà tornare, i parenti, gli amici. Cerco con un ultimo sforzo di tenermi a galla per respirare  mentre il peso mi sta portando inesorabilmente a fondo. E mi sveglio....           

Dario viso Dario Bilotti

Copia dell'articolo

Articolo Dario pesca

Se volete leggere l'articolo in originale andate su questo link, lo trovate a pagina 34

 

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