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Salita ai laghi - Dario Bilotti

Il racconto del mese di Dario, pubblicato sul Corriere di Carmagnola

Uomo cane

Giovanni si avvicinò a Ugo e gli carezzò la testa per svegliarlo, aveva già preparato la colazione per ambedue, poi uscirono di casa. La mattina era fresca e il sole cominciava a illuminare le cime delle montagne. Montarono in macchina per avvicinarsi al sentiero per salire ai laghi, nel giro di qualche minuto giunsero su uno slargo della strada e Giovanni  parcheggiò la vettura. Aveva deciso di andarsi a fare una passeggiata portandosi dietro Ugo che fremeva sempre per andare in giro alla scoperta di cose nuove. Impegnarono il sentiero, la giovane età di Ugo gli permetteva di essere sempre davanti a Giovanni di qualche metro, si fermava solo per aspettarlo se si spostava dalla mulattiera per buttare uno sguardo alla ricerca di porcini. Il bosco era immerso nell'ombra, il sole non filtrava ancora tra le foglie dei faggi che riempivano pezzi di terra scoscesa lungo il cammino. Lo zaino sulle spalle di Giovanni cominciava a pesare e si chiese dove Ugo trovasse tutta quella energia, ma d'altronde non aveva i suoi trentacinque anni. La salita si protrasse  per una buona mezz'ora e finalmente giunsero al primo pianoro che delimitava il cambiamento di vegetazione, Qualche abete, alcuni pini mughi e il bianco del tronco delle betulle. L'erica colorava di viola qua e là, spuntando da sotto le rocce che punteggiavano, come elementi posti per interrompere la monotonia della bassa e rada erba, il bordo del sentiero. Ugo si fermò come spaventato, fissava un punto fisso tra alcuni grossi sassi. Giovanni si accorse subito che lo sguardo era di terrore e il pericolo si fece anche sentire, una grossa vipera arancione soffiava sentendosi minacciata. Bastò un colpo di bastone sul terreno affinchè le vibrazioni facessero scappare il serpente, che silenziosamente infatti si girò su se stesso e velocemente tornò a nascondersi. Rinfrancato, Giovanni spronò Ugo a proseguire la salita. Dopo una camminata sotto un sole ormai diventato alto e cocente si fermarono a bere la fresca acqua che sgorgava da sotto un masso coperto di muschio. Un bel porcinello rosso faceva bella mostra di sé alla base della betulla  che carica di foglie ballerine si sporgeva sul sentiero;  il colore della testa del fungo era una macchia che interrompeva il verde delle basse piantine di timo  e il giallo della genziana il cui alto stelo  ondeggiava assecondando il lento spirare di una bava di vento. La stessa betulla concedeva un poco di frescura sotto la sua tremolante ombra. Dalla strada la montagna sembrava si arrotondasse man mano che saliva, forse perché ormai le piante erano state soppiantate da bassi cespugli. Giovanni e Ugo si sedettero fianco a fianco per prendere fiato. La sosta durò poco, la meraviglia che li aspettava sembrava mettesse loro fretta. E finalmente lo splendido blu cominciò a farsi vedere. Giunsero alla sommità  per poi discendere  nella conca dove gli invasi creati da due ghiacciai ormai disciolti riflettevano il colore del cielo. Saltuariamente cerchi concentrici si allargavano sulla superficie dei laghi creati da trote o salmerini che “bollavano”, rompendo l'acqua, per catturare gli insetti che ci si appoggiavano.

Nuovamente seduto Giovanni si terse il sudore, si sfilò gli scarponi e i calzettoni e subito sul suo alluce si appoggiò una farfalla con l'addome esile e a strisce rosse e nere, come nere con riflessi bluastri erano le ali. Aprì lo zaino e divise il panino con il salame con Ugo, il quale appena terminato di consumare il frugale pasto  continuò l'esplorazione, la sua curiosità era tanta essendo la prima volta che saliva così in alto. Di soppiatto si avvicinava dietro i grossi massi lungo le rive del lago più grande e appena si sporgeva mostrando il capo, le rane si tuffavano in acqua e le sanguinerole si allontanavano velocemente verso il centro. Le marmotte sempre attente tenevano d'occhio gli intrusi che stavano invadendo il loro spazio fischiando ma senza essere viste, per allertare le compagne. Molto lontano e molto in alto anche un'aquila volteggiava maestosa  sul suo territorio. Giovanni, beandosi della leggerissima brezza che gli carezzava il viso si sdraiò, sopportando il freddo che la maglietta intrisa di sudore che velocemente si era incollata alla sua schiena  gli trasmetteva  in quanto rinfrescata dall'erba del prato. Ogni tanto alzava il capo per controllare il suo giovane compagno di camminata che correva e saltellava quasi fosse stato morsicato da una tarantola e sorridendo si appisolò. Un breve, brevissimo sonno rigenerante in cui addirittura sognò. Appena si rese conto di essere ben sveglio si sciacquò il viso con l'acqua freddissima del lago notando  la purezza e la trasparenza del liquido elemento, sul quale si riflettevano le poche eteree nubi  che sporcavano il meraviglioso azzurro intenso del cielo.            La superficie era talmente calma che la associò allo specchio del bagno dove si guardava la mattina appena desto...considerando che l'impressione del posto in cui si trovava in quel momento era sicuramente  migliore. Si stirò fino a quando senti lo scricchiolio delle ossa e male al collo per la posizione assunta durante la breve siesta. Ritirò nello zaino tutto quanto vi aveva tolto, controllò di non aver lasciato rifiuti per terra e finito l'inventario si mise lo zaino sulle spalle. Era pronto, carico per il ritorno. La sosta terminò, Giovanni chiamò Ugo, il quale  sembrava non sentisse visto che si era allontanato parecchio, addirittura sull'altra sponda, comunque sempre sotto uno sguardo amorevole... quasi sempre. Questa volta due dita in bocca per un fischio e un gesto eloquente del braccio lo convinse a tornare. Presero la via per la discesa a valle, ripercorsero a ritroso la strada e sicuramente si rinfrescarono solo quando si infilarono sul sentiero ombroso che serpeggiava nel bosco. Giovanni tenne vicino a se Ugo e spuntarono sulla strada asfaltata, si sedettero in macchina e si diressero verso il paese. Dieci minuti bastarono per coprire la distanza e giunti in piazza parcheggiarono sotto un sole terribile. Stefania li stava attendendo sull'uscio e appena li vide il suo viso si illuminò esclamando " eccoli i miei amori", entrò in casa velocemente e ne uscì con un grosso bicchiere di spumeggiante birra  per Giovanni e mise per terra una ciotola colma d'acqua fresca per Ugo.

Dario viso Dario Bilotti

Copia dell'articolo 

salita al lago

 

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Veglione di Capodanno-Dario Bilotti

Ancora un racconto di Dario Bilotti, pubblicato sul Corriere di Carmagnola

31 dicembre 2018 veglione

Carmelo e Calogero si trasferirono entrambi al nord, da Catania,  lo stesso anno e a pochi giorni di distanza, per lavorare in una azienda di stampaggio lamiere. Si conobbero in fabbrica e nacque subito una amicizia, se non altro per la provenienza. Erano entrambi simpatici e alla mano, tanto da riuscire in poco tempo a far breccia nel carattere dei musoni piemontesi. E infatti bastò poco perché venissero accettati come due dei loro. Era in primavera ed ebbero tempo tutto un anno per rinsaldare la bella impressione  che fecero a tutti. All'approssimarsi delle festività natalizie, con i colleghi in una pausa lavorativa, cercarono di organizzare un cenone per attendere l'arrivo del nuovo anno. Come sempre le decisioni tardavano a essere condivise, ma trovarono la soluzione.  Calogero dall'inizio della sua permanenza in Piemonte  affittò una cascina a Villafranca d'Asti, isolata ma poco lontano dalla stazione ferroviaria, tanto da poterla raggiungere velocemente per recarsi sul posto di lavoro a Moncalieri e si prestava ottimamente a incontri simil-goliardici per feste o quant'altro. Tutti i colleghi quindi colsero l'occasione per organizzare il cenone di Capodanno colà con le rispettive famiglie, su invito del padrone di casa chiaramente, famiglie ormai diventate parte di una bella comunità in amicizia. Ognuno avrebbe portato qualcosa da mangiare per festeggiare in allegria con i compagni di lavoro. Carmelo invece momentaneamente abitava in casa della sorella a Testona. Chiusa la  fabbrica per le feste sarebbe rimasto solo in quanto i parenti ospitanti avrebbero approfittato del periodo vacanziero per recarsi in montagna. Ma prima che partissero Carmelo chiese alla sorella, cuoca sopraffina,  di preparare un paio di  manicaretti tipici  catanesi. E arrivò l'ultimo giorno. Dal quinto piano senza ascensore Carmelo scese sei volte dalle scale per portare le abbondanti porzioni di cibo in macchina, una favolosa 500 F nuova di fabbrica acquistata a rate. Pensò che la sorella avesse esagerato, ma la cucina meridionale, è notorio, è più che abbondante. Chiuse la porta e salì in macchina dirigendosi a Torino, voleva portare un paio di vassoi di cannoli siciliani agli astanti. Giunto nella pasticceria siciliana che gli avevano indicato,  aspettò che gli fornissero la  trentina di cannoli ordinati appena arrivato, devono essere mangiati freschi si sa. Chiaccherando simpaticamente con la cassiera le  spiegò che erano per la festa di fine anno, al che la ragazza gli chiese se era il caso li prendesse in quel momento, ma Carmelo disse: << e quando se no >>. Pagato, uscì con i vassoi, li depositò in macchina e prese la strada per Villafranca. Era inverno, la nebbia la faceva da padrona, con molta calma imboccò la provinciale e più si avvicinava alle zone fuori dai centri abitati meno vedeva, oltrettutto non passava nessun'altra vettura. All'improvviso senti traballare la macchina, ipotizzò una foratura. In effetti la ruota anteriore destra si era bucata. Dalla tasca della portiera estrasse il libretto d'uso per guardare dove si trovasse la gomma con il cerchione. Spostò sul sedile anterione tutto ciò che aveva caricato nel cofano per raggiungere il cric e la ruota di scorta. Mani gelate e bagnato fradicio per la nebbia, al buio faticò non poco a sostituire la ruota. Nel rimontarla non trovò più i bulloni, senza luce era una impresa, probabilmente li aveva appoggiati male a terra e colpiti con un piede, tanto da farli cadere nel fosso costeggiante la strada. Si ricordò d'aver letto che smontando un solo bullore dalle ruote rimanenti  avrebbe sopperito al problema. E così fu. Mise la gomma forata nel cofano, tolse dal sedile quanto vi aveva appoggiato e lo rimise in bell'ordine dov'era. E passarono due vetture che imprecavano per l'improvviso ostacolo a bordo strada  che  si era parato loro davanti. “Santa Rosalia aiutami tu a non mandarli a quel paese” pensò. Rimise in moto e guidando con la testa fuori dal finestrino per vedere la striscia di mezzeria continuò il suo viaggio. Ogni tanto  controllava con la mano se le orecchie erano ancora attaccate alla testa, erano talmente gelate che non le sentiva più, il viso era bagnato e congelato anch'esso  tanto da costringerlo ad asciugarselo, per non parlare degli occhi, che non sapeva se colavano lacrime o acqua, il naso era come le orecchie, un ghiacciolo. Unica consolazione il cappellino di lana che gli copriva il capo, anche se si era formata una bandana  di nebbia congelata. Passò indenne il curvone che scendeva da Dusino San Michele verso Villanova e passò sotto il ponte della ferrovia. Il buio era pesto, la nebbia era talmente densa che immaginava di poterla stringere tra le mani come una spugna. Ma finalmente, dopo due ore interminabili di viaggio, svoltò a destra per raggiungere Calogero. Non riconobbe il paesaggio, non solo per la visibilità ridotta a zero, ma perché si convinse d'aver imboccato quella sbagliata. Con estrema fatica, su quel sentiero sterrato strettissimo riuscì a tornare indietro, le braccia a forza di girare il volante erano dolenti, per un istante sognò quell'aggeggio di recente invenzione che si chiamava servosterzo. Tornò sulla strada principale, scese per controllare se la sua impressione era giusta...no, la strada era proprio quella. Cominciò a chiedersi se il mondo ce l'avesse con lui, ma la pazienza e la determinazione lo spinse a riprendere la strada appena lasciata. Si ripromise di telefonare ai suoi genitori per comunicare loro che il tempo al nord aveva solo due condizioni: fresco e freddo I cento metri che lo separavano da Calogero divennero dieci chilometri, ma finalmente giunse, entrò nel cortile e si accorse d'essere il primo. Pensò che i  problemi appena superati li avrebbe condivisi con gli altri. A malapena vide la porta d'ingresso, prima di suonare scaricò le derrate alimentari davanti alla porta per non far prendere freddo all'amico, saltellando tra uscio e macchina convinto di scaldarsi nel giro di tre minuti. Pigiò il pulsante del campanello, All'apertura dell'uscio lo illuminò un fascio di luce e un'ombra che esordì con "ciao, che ci fai qui?" Carmelo rispose: "spiritoso, non fare il “minchione”, cosa vuoi che sia venuto a fare" e Calogero di rimando:"ma oggi è il 30".

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Veglione di Capodanno-Dario Bilotti, I racconti di Dario

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Il mio mondo in grigio - Dario Bilotti

Un emozionante racconto di Dario

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Rivedo vecchie foto e il passato mi assale, feroce e nostalgico. Il colore rosso è forte, il blu mi emoziona, il giallo mi abbaglia e il verde mi quieta... e così via. Ma  le immagini, quelle stampate nella memoria, sono solo in bianco e nero. Luce e tenebra. Ma le sfumature, dalla luce alle tenebre, erano e sono infinite. Rammento la scatola di legno da cui uscivano fotografie di personaggi mai conosciuti, da guardare con curiosità; donna seduta e uomo in piedi accanto, austeri, seri, mai un sorriso, come un monito a vivere con durezza e sacrificio. Foto ingiallite o arrossate dalla vetustà che mostravano la rudezza  della vita vissuta. Avi, nonni dei nonni, lontani nel tempo ma vicini al pensiero che furono coloro che permettono l'agio di oggi. Ricordo il cortile che frequentavo con l'antico  tavolo romano in pietra appoggiato sulla ghiaia e le pareti scrostate delle case circostanti; l'ippocastano su cui salivo a raccogliere maggiolini; la montagna scura  e opprimente e  le nuvole che la ricoprivano. La strada, che mi conduceva a scuola tra le murature sbrecciate delle case antiche che avevano visto il meglio e il peggio della storia passata, mi accompagnava nella penombra fino all'ingresso; la lavagna di ardesia e i gessetti che ne sporcavano la superficie e il cassino di tela che  la ripulivano. La strada del ritorno uguale ma di direzione opposta quindi diversa. La neve che copiosa cadeva a quel tempo, il mondo colorato che si mostrava solo con due tinte, bianco e nero. I genitori e gli zii, gli amichetti con cui passare ore ed ore a giocare liberi di sporcarci. Poi il cambio di città e cambio di visuale, ma sempre muri antichi, nobili, vissuti dalla e nella Storia. Nuove amicizie e nuove sensazioni ma luminosamente grigie.  E poi le feste in casa di Luigi o Enrico come di Rita o  Franca, l'addetto al giradischi e la luce del lampadario che si spegneva, il pavimento con le piastrelle squadrate che formavano un improbabile quanto semplice mosaico  su cui ballare e sentire il respiro di colei che si stringeva a me. Il primo bacio con un iniziale senso di disgusto per poi capire che era il primo splendido passo. Poi l'adulto che riaccendeva la luce eliminando l'atmosfera, abbagliando. Le vie cittadine percorse dalle  nere rotaie dei tram che portavano ovunque. Sorrisi puri di giovani inconsapevoli di quanto prospettasse loro il futuro. Visi semplici, su semplici vestiti che esaltavano le figure e  l'immaginazione.  La prima sigaretta fumata di nascosto e un giro di labbra e di saliva. Una cotta e pensieri profondi proiettati nel futuro, sguardi intensi tra occhi che vedono solo dinanzi a sé. Tutto nelle infinite sfumature tra il bianco e il nero. Amabile, meraviglioso. Ricordi luminosi senza colore. Felicità, pur non avendo niente se non la mia fantasia e la libertà di poterla  espandere senza confini. Parlare e innamorarmi, passeggiare mano nella mano fregandomene delle critiche  dei puritani che non accettano un bacio in pubblico. E gli occhi scuri su un viso incorniciato da lunghi capelli neri e sorrisi abbaglianti. Una passeggiata e un gelato bastavano a riempire la giornata con l'intenzione di rivederci il giorno dopo. Un mondo da esplorare e da vivere; senza colore, ma con tanto intimo calore. E poi una scelta motivata, voluta e infine decisa, per vivere appieno la gioventù secondo i miei desideri. Un viaggio, IL VIAGGIO, la lontananza, la sofferenza  per il distacco dalle cose note e dagli affetti, ma la consapevolezza d'averlo autonomamente desiderato e  ottenuto, come fosse una necessità il sentirmi libero di gestire la mia vita andando incontro a difficoltà impreviste ma coinvolgenti. E allora la conoscenza di coetanei o uomini diversi con le loro caratteritiche , lontane dalle mie abitudini e a cui sottostare,  resistendo magari con un nodo in gola alle prevaricazioni, ma necessarie per indossare una corazza contro le inevitabili traversie. Il mare nero, le nuvole grigie e il riverbero bianco coprono ogni colore, questo ho dinanzi agli occhi perché è intimo, sentito, profondo. I viaggi e i popoli conosciuti  sono ormai scolortiti come se le tinte perdessero la loro luminosità. Il ritorno a casa e adeguarsi alla normalità e agli obblighi  costringe al buio ogni pensiero di vita vissuta. Ma le prove a cui inevitabilmente si va incontro rafforzano il carattere, il cui embrione è stato creato dalle esperienze giovanili.  Nuovi amori e nuovi orizzonti che cercano di nascondere il passato, null'altro fanno che stendere un velo scuro per celare quanto gestito con determinazione, come se tutto quanto finisse in un ipotetico album  e messo in un cassetto, pronto però a svelare al curioso e se ne ha la capacità di calarsi nell'intimo altrui. I ricordi sfumano lasciandomi le certezze del passato su una serie di  fotografie in bianco e nero, pronti però a essere visualizzati e giudicati, ma comunque amati e decisi a resistere nel tempo.

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Quando la nebbia era una costante - Dario Bilotti

Ancora un racconto di Dario pubblicato sul mensile "Il Corriere di Carmagnola"

Nebbia Dario

Scendendo le scale con tutta l'attrezzatura ho subito un pensiero: partirà la macchina visto che ieri ha fatto fatica a mettersi in moto?

Speriamo. Appena apro il portone mi investe un'ondata di aria gelida, getto lo sguardo verso i giardini al di là del corso e li vedo a fatica attraverso un velo caliginoso e freddo, sono completamente bianchi, la galaverna. Beh, mi dico, siamo a dicembre, tra pochi giorni è Natale, non posso pretendere le temperature estive. Riconosco a fatica la mia 500F blu ottanio dalla targa, anch'essa è complelamente ricoperta da un velo ghiacciato. Poso le canne e il resto dell'attrezzatura da pesca sul sedile posteriore e mi accomodo al volante incrociando le dita. Parte subito, dopo la tipica e classica tosse del Cinquino. Intelligente la mia vettura, oggi è sabato, che non parta nei giorni di lavoro lo accetto. La nebbia è spessa, lo sguardo non mette a fuoco alcunchè oltre una ventina di metri, oltretutto sono ancora in città,  chissà cosa troverò per strada raggiungendo la zona di pesca dove grossi “cuaiass”  (cavedani) mi stanno aspettando. Appena lascio la città alle mie spalle direzione Chivasso, trovo un muro di nebbia, a malapena vedo una striscia bianca davanti al musetto, la velocità si limita ai 20 all'ora e comincio a pensare che se trovo uno spiazzo dove fare manovra potrei tornare a casa.

Improvvisamente una sagoma mi si para davanti, freno e rallento quanto basta per continuare a vederla tenendomi a distanza di sicurezza. L'occhio professionale mi fa notare i fanali posteriori, capisco il modello, la marca e il codice e con un'occhiata più attenta determino anche la marca del camion, è un Fiat 684, sicuramente dalle pessime condizioni della verniciatura della sponda del cassone è un autocarro che trasporta sabbia. Bene, arriverà sulle rive di un fiume per caricare.

Il viaggio prosegue, un tempo interminabile per percorrere i relativi pochi chilometri, ho gli occhi arrossati per lo sforzo di tenere sotto controllo la strada e il mezzo davanti, l'abitacolo è diventato un forno, i vetri sono appannati tanto da doverli asciugare con uno straccio, il selciato è sdrucciolevole e la fine caduta di sabbia (avevo ragione) mi colpisce il lunotto. All'improvviso un cartello stradale sul bordo strada mi indica la deviazione per raggiungere il grande fiume. Inizio a percorrere il sentiero che si insinua tra gli alberi costeggianti l'argine, tra buche piene d'acqua  raschio il fondo sperando di non strappare la marmitta e di non impantanarmi nel fango, mentre le foglie che cadono copiose dalle fronde si incollano al vetro talmente bene che neppure il tergicristallo riesce a togliere...forse dovrei cambiare le spazzole. Ma eccolo il posto designato per la splendida battuta di pesca. Parcheggio alla bella e meglio su un prato, scarico il materiale e mi accorgo subito che la nebbia è diventata ancora più fitta, un venticello gelato mi raffredda allontanando tutto il calore accumulato durante il viaggio e non riesco a capire da dove iniziano i brividi. Ma tant'è, armato di tutto punto mi avvicino all'acqua scendendo dall'argine per un paio di metri; se la posizione in basso mi tiene al coperto dal vento è anche vero che il gelo vicino all'acqua ristagna e la nebbia che sale mi lascia addosso uno strato umido che ghiaccia praticamente subito, vestendomi di bianco. Mi paragono a un Babbo Natale pescatore.  Con il residuo tepore che ancora sento sulle mani riesco a allungare  la canna telescopica, a infilare il filo di nylon negli anelli, a montare il galleggiante, i piombini e l'amo, poi innesco due gianin  surgelati  ( i bigattini) e infine calo il tutto nell'acqua. Sono costretto a chinarmi perché la nebbia si solleva dalla superficie lasciando uno spazio di circa mezzo metro di perfetta visibilità, ma solo in quello riesco a seguire lo scorrere del galleggiante in superficie. Questa posizione logicamente sposta il vestiario in maniera scomposta scoprendo, ora in un punto ora in un altro, parti di pelle che come una spugna assorbono il gelo e i brividi di cui non sento affatto la necessità e che oltrettutto  si sommano a quelli che già sento. Quando quasi non vedo più il galleggiante recupero  il filo con il mulinello trovando difficoltà e non capisco perché girando la manovella incontro una resistenza accompagnata da uno strano stridore, fino a quando vedo una lunga e rigida linea bianca che è diventata tutt'uno con la canna. Il filo che si adagia sull'acqua infatti si ghiaccia appena si solleva dal liquido elemento. Nel frattempo i guanti di lana che indosso e che ho dovuto togliere per portare a termine i preliminari non svolgono affatto il loro compito, le punte del pollice, indice e medio di entrambe le mani sono oltre che gelate e bianche anche doloranti, un dolore che poco alla volta si estende a tutte le falangi. Mi domando: “ma chi me lo ha fatto fare”, neanche il tempo di finire di domandarmelo che mi ritrovo a richiudere la canna, di tagliare il filo e buttare nella borsa tutta la montatura, con l''intento di abbandonare questa specie di Polo Nord il più in fretta possibile, rimandando la sistemazione del tutto quando a casa. Un rumore sordo, attutito dalla foschia e dalla posizione inferiore rispetto all'argine mi blocca, seguito da un scroscio di pioggia davanti a me, un secondo dopo, con il classico strido, un fagiano sorvola la mia posizione.  In effetti era un colpo di fucile da caccia, la pioggia era l'incontro della rosa di pallini di piombo con la superficie dell'acqua e lo strido probabilmente era la risata dell'uccello felice di non essere stato colpito. Nonostante il freddo mi sono messo a ridere pensando che dall'altra sponda del Po  un fagiano faceva con le ali il verso dell'ombrello. Torno al presente e probabilmente l'urlo che pianto  lo sentono pure a Casale, ma non sento risposte, non so se la caccia è ancora aperta ma il cacciatore dotato di radar per sparare senza visibilità si è sicuramente dileguato. Monto in macchina e dopo averla messa in moto attendo, battendo i denti dal freddo, che il riscaldamento mi scongeli. Sarà per l'effetto del sopravvenuto calore che mi addormento, Sogno di spiaccicarmi su un termosifone, come una lucertola su un masso in piena estate, godendo dei brividi che lentamente si allontanano e che in questo caso sono un sensazione bellissima di godimento. Quanto dormo? non lo so, ma appena mi sveglio non ho neppure voglia di guardare l'orologio, piccola manovra e prendo la strada del ritorno. A fatica, nella bruma, torno sulla statale, continuo a vedere poco e questa volta sono solo, nessun mezzo mi guida, mi indica il percorso. Ho paura di avvicinarmi troppo al bordo strada come al centro della stessa, quindi rallento, tenendo una velocità se possibile ancora più bassa di quella tenuta nel viaggio di andata. Ma comunque arrivo illeso in città trovando il sole. Tiro giù il finestrino per assaporare un po' di calore, ma la temperatura mi fa desistere in un attimo. Giusto il tempo di arrivare sotto casa, chiudere la macchina, salire le scale e appiccicarmi al termosifone appena entrato...a volte i sogni si avverano. Rivolgo un pensiero al grande fiume, con tanto amore e rispetto gli sussurro: “ ci rivediamo in primavera”.. 

 

 

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Capo San Donato - Dario Bilotti

Ancora una storia di Dario Bilotti pubblicata sul "Corriere di Carmagnola"

capo san donato

Mi siedo su una scomoda panchina del lungomare di Finale, le doghe mi fanno male alle natiche, ma finalmente trovo la posizione giusta e me ne dimentico. E' sera, sono anche lontano dai lampioni che illuminano la passeggiata. E osservo il mare calmo, sono rilassato,  dopo una intensa giornata in barca mi devo fermare a pensare. Poca gente che passeggia, ma soprattutto lontana, quindi sono libero di concentrarmi sui miei pensieri.  Il sole mi ha seccato la pelle, il bagno in altomare mi ha depositato tanto di quel sale che mi pizzica il corpo. Tornato in barca, nelle calme acque del porto, mi farò una rigenerante doccia. Però sto bene, mi sento vivo. Mi sembra di fluttuare in aria come dormissi, o forse dormo, sono talmente immerso nelle mie cogitabonde elucubrazioni mentali che mi pare di essere in una bolla che impedisce la ricezione dei suoni.

Davanti una massa scura, un sipario nero copre l'immagine del mare e del cielo, come fosse tutt'uno, come fossi a teatro in attesa dello spettacolo. Una sottile striscia luminosa creata dalle  luci alle mie spalle illumina fiocamente i miei piedi, che sia veramente un sipario sul retro del quale gli attori si stanno preparando per la recita con la luce accesa e che trafila al di sotto? 

Alzo lo sguardo al cielo, una volta punteggiata da migliaia di brillantini  e una eterea pallida nuvola capitata lì per caso. Riabbasso lo sguardo e una luce lontana mi incuriosisce, in aria o in cielo? aereo a bassa quota o nave? Poi noto una piccola lucina verde quasi fagocitata da quella bianca, è una nave che sta mostrando il suo lato dritto. Mi piacerebbe esserci sopra per guardare la costa lontana e osservarne le luci che la illuminano. Quanto rimango sullo  scomodo sedile non lo quantifico, mi è preso un sonno improvviso e decido di rientrare. Stancamente mi avvio. Un venticello fresco mi crea dei brividi tuttaltro che fastidiosi, capisco che il calore accumulato in giornata mi sta lasciando. Mentre costeggio il lungomare, dalla passeggiata capto il leggero suono della risacca senza vederla, ma immagino la sabbia e le piccole conchiglie che rotolano senza sosta, avanti e indietro sospinte da piccolissime onde. L'ingresso del porto turistico mi accoglie sonnecchioso, silente. I moschettoni battono sugli alberi delle barche a vela con un flebile tintinnio, quasi inascoltato. Non voglio fare la doccia in barca, so che sulla spiaggia c'è una diffusore che concede acqua calda addirittura fino alla mattina e quindi dopo aver raccattato infradito e accappatoio mi ci dirigo. Nel buio più totale voglio provare a saggiare la temperatura del mare, è caldo e per chiudere degnamente la giornata entro in acqua, nudo, una sensazione splendida, ogni tanto mi giro verso terra per guardare se qualche ombra si avvicina alla battigia, nessuno. Nuoto a lungo senza perdere di vista la riva, non vorrei che la corrente mi spingesse fino a Savona, ma sapendo di essere all'interno di una piccola cala scarto il timore. Con calme bracciate   torno sulla rena, mi copro con l'accappatoio e mi dirigo alla doccia. Come supponevo l'acqua è calda, deliziosa. E ritorno al porto, avvicino la barca al molo tirando  la sagola, metto i piedi sulla passerella senza toccare il tientibene e scendo nel pozzetto di poppa, mi siedo su una poltroncina per asciugarmi  il capo, saluto un marinaio della Guardia Costiera che rientra e poi, vinto dalla spossatezza, raggiungo  il comodo letto a due piazze messomi gentilmente a disposizione dell'amico padrone dell'imbarcazione. Sono solo, come se ne fossi io il capitano, appoggio la testa sul cuscino e giusto il tempo di sentire un leggero rollio che mi si chiudono gli occhi.  Ma forse sono troppo stanco per addormentarmi. Mi giro e rigiro nel comodo giaciglio, dalla botola sulla testa, aperta, entra non solo  aria fresca ma anche rumori noti, conosciuti e mai dimenticati. La diga foranea, nonostante il mare  sia piatto amplifica il rumore della risacca, forse le rocce creano un brontolio tra le cavità presenti tra esse. Il fasciame delle barche in legno scricchiola conformemente al leggero movimento  della superficie del liquido elemento, mai fermo. Nel silenzio di questa notte ogni minimo rumore sembra enorme. Mi alzo nuovamente e mi risiedo a poppa, mi appoggio sul mancorrente  e getto uno sguardo in acqua. Grossi cefali e piccoli saraghi nuotano in branco attorno allo scafo, la poca luce di un lampione del porto ne esalta le figure. La catena del corpo morto a cui la barca è attaccata è ricoperta di alghe, la gomena d'ormeggio dalla bitta del molo a quella di bordo scorre nel passacavo d'acciaio con un leggero stridore, il tendalino che copre l'ingresso  della  sottocoperta si muove lentamente assecondando il leggero rollio, sento le ruote della passerella che scorrono sul cemento e mi accorgo di non averla  issata a bordo e quindi con non poco sforzo la sollevo sopra la poppa distanziandola dal molo. Faccio un rapido inventario delle manovre e quando sono convinto di essere stato un perfetto marinaio torno a dormire. Mi soffermo su un pensiero detto non so da chi, ma letto in più occasioni:“ come fai a spiegare il mare a chi ci vede solo acqua” e poi mi trovo  a giustificare per ipotetici curiosi che tutta la nomenclatura dei termini marinareschi  per chi ama il mare e vive il mare nella sua essenza è pura poesia e non spocchiose dimostrazioni di cultura per pochi eletti. E più mi incaponisco su questi pensieri, che forse non dovrò mai esternare, meno voglia di dormire mi assale. Ma non sono solo, dal cabinato di fianco una voce mi chiama. E' il  vicino di posto barca conosciuto in mattinata, anche lui è sceso dalla branda, pardon dal letto, per appropriarsi della fresca arietta che inevitabilmente soffia di sera sul mare e avendo notato la luce accesa della cabina fino a pochi istanti prima, ha pensato di scambiare quattro chiacchiere. Due parole sul tempo come vecchie comari al mercato e una comune esaltazione del ”salato sentimento” su cui stiamo galleggiando. Italiani, popolo di Santi e di Navigatori. Questa frase ha dato il via a un nuovo scambio di racconti su navigazioni varie e opinioni che si protrae almeno per una buona mezz'ora, ma un grosso sbadiglio improvviso mi avverte, contagio anche il  mio gentile  interlocutore e di comune decisione ce ne torniamo a nanna. Ma questa volta...buonanotte.    

Dario viso Dario Bilotti        

Dario caposandonato

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