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Quando la nebbia era una costante - Dario Bilotti

Ancora un racconto di Dario pubblicato sul mensile "Il Corriere di Carmagnola"

Nebbia Dario

Scendendo le scale con tutta l'attrezzatura ho subito un pensiero: partirà la macchina visto che ieri ha fatto fatica a mettersi in moto?

Speriamo. Appena apro il portone mi investe un'ondata di aria gelida, getto lo sguardo verso i giardini al di là del corso e li vedo a fatica attraverso un velo caliginoso e freddo, sono completamente bianchi, la galaverna. Beh, mi dico, siamo a dicembre, tra pochi giorni è Natale, non posso pretendere le temperature estive. Riconosco a fatica la mia 500F blu ottanio dalla targa, anch'essa è complelamente ricoperta da un velo ghiacciato. Poso le canne e il resto dell'attrezzatura da pesca sul sedile posteriore e mi accomodo al volante incrociando le dita. Parte subito, dopo la tipica e classica tosse del Cinquino. Intelligente la mia vettura, oggi è sabato, che non parta nei giorni di lavoro lo accetto. La nebbia è spessa, lo sguardo non mette a fuoco alcunchè oltre una ventina di metri, oltretutto sono ancora in città,  chissà cosa troverò per strada raggiungendo la zona di pesca dove grossi “cuaiass”  (cavedani) mi stanno aspettando. Appena lascio la città alle mie spalle direzione Chivasso, trovo un muro di nebbia, a malapena vedo una striscia bianca davanti al musetto, la velocità si limita ai 20 all'ora e comincio a pensare che se trovo uno spiazzo dove fare manovra potrei tornare a casa.

Improvvisamente una sagoma mi si para davanti, freno e rallento quanto basta per continuare a vederla tenendomi a distanza di sicurezza. L'occhio professionale mi fa notare i fanali posteriori, capisco il modello, la marca e il codice e con un'occhiata più attenta determino anche la marca del camion, è un Fiat 684, sicuramente dalle pessime condizioni della verniciatura della sponda del cassone è un autocarro che trasporta sabbia. Bene, arriverà sulle rive di un fiume per caricare.

Il viaggio prosegue, un tempo interminabile per percorrere i relativi pochi chilometri, ho gli occhi arrossati per lo sforzo di tenere sotto controllo la strada e il mezzo davanti, l'abitacolo è diventato un forno, i vetri sono appannati tanto da doverli asciugare con uno straccio, il selciato è sdrucciolevole e la fine caduta di sabbia (avevo ragione) mi colpisce il lunotto. All'improvviso un cartello stradale sul bordo strada mi indica la deviazione per raggiungere il grande fiume. Inizio a percorrere il sentiero che si insinua tra gli alberi costeggianti l'argine, tra buche piene d'acqua  raschio il fondo sperando di non strappare la marmitta e di non impantanarmi nel fango, mentre le foglie che cadono copiose dalle fronde si incollano al vetro talmente bene che neppure il tergicristallo riesce a togliere...forse dovrei cambiare le spazzole. Ma eccolo il posto designato per la splendida battuta di pesca. Parcheggio alla bella e meglio su un prato, scarico il materiale e mi accorgo subito che la nebbia è diventata ancora più fitta, un venticello gelato mi raffredda allontanando tutto il calore accumulato durante il viaggio e non riesco a capire da dove iniziano i brividi. Ma tant'è, armato di tutto punto mi avvicino all'acqua scendendo dall'argine per un paio di metri; se la posizione in basso mi tiene al coperto dal vento è anche vero che il gelo vicino all'acqua ristagna e la nebbia che sale mi lascia addosso uno strato umido che ghiaccia praticamente subito, vestendomi di bianco. Mi paragono a un Babbo Natale pescatore.  Con il residuo tepore che ancora sento sulle mani riesco a allungare  la canna telescopica, a infilare il filo di nylon negli anelli, a montare il galleggiante, i piombini e l'amo, poi innesco due gianin  surgelati  ( i bigattini) e infine calo il tutto nell'acqua. Sono costretto a chinarmi perché la nebbia si solleva dalla superficie lasciando uno spazio di circa mezzo metro di perfetta visibilità, ma solo in quello riesco a seguire lo scorrere del galleggiante in superficie. Questa posizione logicamente sposta il vestiario in maniera scomposta scoprendo, ora in un punto ora in un altro, parti di pelle che come una spugna assorbono il gelo e i brividi di cui non sento affatto la necessità e che oltrettutto  si sommano a quelli che già sento. Quando quasi non vedo più il galleggiante recupero  il filo con il mulinello trovando difficoltà e non capisco perché girando la manovella incontro una resistenza accompagnata da uno strano stridore, fino a quando vedo una lunga e rigida linea bianca che è diventata tutt'uno con la canna. Il filo che si adagia sull'acqua infatti si ghiaccia appena si solleva dal liquido elemento. Nel frattempo i guanti di lana che indosso e che ho dovuto togliere per portare a termine i preliminari non svolgono affatto il loro compito, le punte del pollice, indice e medio di entrambe le mani sono oltre che gelate e bianche anche doloranti, un dolore che poco alla volta si estende a tutte le falangi. Mi domando: “ma chi me lo ha fatto fare”, neanche il tempo di finire di domandarmelo che mi ritrovo a richiudere la canna, di tagliare il filo e buttare nella borsa tutta la montatura, con l''intento di abbandonare questa specie di Polo Nord il più in fretta possibile, rimandando la sistemazione del tutto quando a casa. Un rumore sordo, attutito dalla foschia e dalla posizione inferiore rispetto all'argine mi blocca, seguito da un scroscio di pioggia davanti a me, un secondo dopo, con il classico strido, un fagiano sorvola la mia posizione.  In effetti era un colpo di fucile da caccia, la pioggia era l'incontro della rosa di pallini di piombo con la superficie dell'acqua e lo strido probabilmente era la risata dell'uccello felice di non essere stato colpito. Nonostante il freddo mi sono messo a ridere pensando che dall'altra sponda del Po  un fagiano faceva con le ali il verso dell'ombrello. Torno al presente e probabilmente l'urlo che pianto  lo sentono pure a Casale, ma non sento risposte, non so se la caccia è ancora aperta ma il cacciatore dotato di radar per sparare senza visibilità si è sicuramente dileguato. Monto in macchina e dopo averla messa in moto attendo, battendo i denti dal freddo, che il riscaldamento mi scongeli. Sarà per l'effetto del sopravvenuto calore che mi addormento, Sogno di spiaccicarmi su un termosifone, come una lucertola su un masso in piena estate, godendo dei brividi che lentamente si allontanano e che in questo caso sono un sensazione bellissima di godimento. Quanto dormo? non lo so, ma appena mi sveglio non ho neppure voglia di guardare l'orologio, piccola manovra e prendo la strada del ritorno. A fatica, nella bruma, torno sulla statale, continuo a vedere poco e questa volta sono solo, nessun mezzo mi guida, mi indica il percorso. Ho paura di avvicinarmi troppo al bordo strada come al centro della stessa, quindi rallento, tenendo una velocità se possibile ancora più bassa di quella tenuta nel viaggio di andata. Ma comunque arrivo illeso in città trovando il sole. Tiro giù il finestrino per assaporare un po' di calore, ma la temperatura mi fa desistere in un attimo. Giusto il tempo di arrivare sotto casa, chiudere la macchina, salire le scale e appiccicarmi al termosifone appena entrato...a volte i sogni si avverano. Rivolgo un pensiero al grande fiume, con tanto amore e rispetto gli sussurro: “ ci rivediamo in primavera”.. 

 

 

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Il mio mondo in grigio - Dario Bilotti

Un emozionante racconto di Dario

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Rivedo vecchie foto e il passato mi assale, feroce e nostalgico. Il colore rosso è forte, il blu mi emoziona, il giallo mi abbaglia e il verde mi quieta... e così via. Ma  le immagini, quelle stampate nella memoria, sono solo in bianco e nero. Luce e tenebra. Ma le sfumature, dalla luce alle tenebre, erano e sono infinite. Rammento la scatola di legno da cui uscivano fotografie di personaggi mai conosciuti, da guardare con curiosità; donna seduta e uomo in piedi accanto, austeri, seri, mai un sorriso, come un monito a vivere con durezza e sacrificio. Foto ingiallite o arrossate dalla vetustà che mostravano la rudezza  della vita vissuta. Avi, nonni dei nonni, lontani nel tempo ma vicini al pensiero che furono coloro che permettono l'agio di oggi. Ricordo il cortile che frequentavo con l'antico  tavolo romano in pietra appoggiato sulla ghiaia e le pareti scrostate delle case circostanti; l'ippocastano su cui salivo a raccogliere maggiolini; la montagna scura  e opprimente e  le nuvole che la ricoprivano. La strada, che mi conduceva a scuola tra le murature sbrecciate delle case antiche che avevano visto il meglio e il peggio della storia passata, mi accompagnava nella penombra fino all'ingresso; la lavagna di ardesia e i gessetti che ne sporcavano la superficie e il cassino di tela che  la ripulivano. La strada del ritorno uguale ma di direzione opposta quindi diversa. La neve che copiosa cadeva a quel tempo, il mondo colorato che si mostrava solo con due tinte, bianco e nero. I genitori e gli zii, gli amichetti con cui passare ore ed ore a giocare liberi di sporcarci. Poi il cambio di città e cambio di visuale, ma sempre muri antichi, nobili, vissuti dalla e nella Storia. Nuove amicizie e nuove sensazioni ma luminosamente grigie.  E poi le feste in casa di Luigi o Enrico come di Rita o  Franca, l'addetto al giradischi e la luce del lampadario che si spegneva, il pavimento con le piastrelle squadrate che formavano un improbabile quanto semplice mosaico  su cui ballare e sentire il respiro di colei che si stringeva a me. Il primo bacio con un iniziale senso di disgusto per poi capire che era il primo splendido passo. Poi l'adulto che riaccendeva la luce eliminando l'atmosfera, abbagliando. Le vie cittadine percorse dalle  nere rotaie dei tram che portavano ovunque. Sorrisi puri di giovani inconsapevoli di quanto prospettasse loro il futuro. Visi semplici, su semplici vestiti che esaltavano le figure e  l'immaginazione.  La prima sigaretta fumata di nascosto e un giro di labbra e di saliva. Una cotta e pensieri profondi proiettati nel futuro, sguardi intensi tra occhi che vedono solo dinanzi a sé. Tutto nelle infinite sfumature tra il bianco e il nero. Amabile, meraviglioso. Ricordi luminosi senza colore. Felicità, pur non avendo niente se non la mia fantasia e la libertà di poterla  espandere senza confini. Parlare e innamorarmi, passeggiare mano nella mano fregandomene delle critiche  dei puritani che non accettano un bacio in pubblico. E gli occhi scuri su un viso incorniciato da lunghi capelli neri e sorrisi abbaglianti. Una passeggiata e un gelato bastavano a riempire la giornata con l'intenzione di rivederci il giorno dopo. Un mondo da esplorare e da vivere; senza colore, ma con tanto intimo calore. E poi una scelta motivata, voluta e infine decisa, per vivere appieno la gioventù secondo i miei desideri. Un viaggio, IL VIAGGIO, la lontananza, la sofferenza  per il distacco dalle cose note e dagli affetti, ma la consapevolezza d'averlo autonomamente desiderato e  ottenuto, come fosse una necessità il sentirmi libero di gestire la mia vita andando incontro a difficoltà impreviste ma coinvolgenti. E allora la conoscenza di coetanei o uomini diversi con le loro caratteritiche , lontane dalle mie abitudini e a cui sottostare,  resistendo magari con un nodo in gola alle prevaricazioni, ma necessarie per indossare una corazza contro le inevitabili traversie. Il mare nero, le nuvole grigie e il riverbero bianco coprono ogni colore, questo ho dinanzi agli occhi perché è intimo, sentito, profondo. I viaggi e i popoli conosciuti  sono ormai scolortiti come se le tinte perdessero la loro luminosità. Il ritorno a casa e adeguarsi alla normalità e agli obblighi  costringe al buio ogni pensiero di vita vissuta. Ma le prove a cui inevitabilmente si va incontro rafforzano il carattere, il cui embrione è stato creato dalle esperienze giovanili.  Nuovi amori e nuovi orizzonti che cercano di nascondere il passato, null'altro fanno che stendere un velo scuro per celare quanto gestito con determinazione, come se tutto quanto finisse in un ipotetico album  e messo in un cassetto, pronto però a svelare al curioso e se ne ha la capacità di calarsi nell'intimo altrui. I ricordi sfumano lasciandomi le certezze del passato su una serie di  fotografie in bianco e nero, pronti però a essere visualizzati e giudicati, ma comunque amati e decisi a resistere nel tempo.

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I colori del mare - Dario Bilotti

Tratto da "Il racconto del mese" del mensile "Il Corriere di Carmagnola"

mare burrasca

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La luce filtra tra nuvole candide, gonfie, vaporose come soffici ammassi di cotone, rendendo azzurro il grigio che ci abbacina, riflettendo sulle superfici lucide e lisce delle sovrastrutture. Sotto, il mare blu scuro occhieggia; lampi di bianco mi costringono a socchiudere gli occhi, il cielo fa capolino tra cirri orlati di grigio, la brezza increspa la superficie e aumenta la riflessione dei raggi solari. Faccio fatica a guardare. I miei occhi azzurri cercano requie non sopportandone la luminosità intensa, ma piccole lacrime leniscono il bruciore. Le nuvole si colorano di grigio; laggiù una netta linea divide l'acqua davanti a noi, il blu profondo si trasforma in nero con un taglio parallelo all'orizzonte. Con un fascio che s'allunga man mano che scende dal cielo la luce crea coni abbaglianti che si spostano con disordinata eleganza quasi a ballare per noi, a deliziarci con voluttuosi volteggi. La prora taglia l'acqua e sembra voglia correre verso l’ignoto, verso il buio. L’aria mi colpisce il viso, ne faccio incetta, me ne riempio i polmoni e ne assaporo il gusto. Una parete scura si avvicina, sembra ancora lontana, un drappo che sta avvolgendo con un colore antracite tutto il microcosmo attorno a noi, fatto d'acqua e d'aria; la luce con riflessi celesti combatte come non volesse lasciarci. Ma il nero è già qui, si impadronisce di noi, l'azzurro è scomparso, il cielo e il mare si fondono in un unico colore, le nuvole gonfie di pioggia si avvicinano con veloce violenza. L'acqua cade a ondate successive, lasciando larghe scie informi sul mare ormai diventato pece. Tutto assume tonalità scure, faccio fatica a distinguere i contorni familiari. Il refolo trasformatosi in vento crea bassissime barriere che corrono sulla superficie, sottili lingue serpeggianti di chiara spuma che velocemente passano lasciando strada a quelle successive, scivolano sotto la chiglia come se prima di incontrare lo scafo si immergessero per non interrompersi. La pioggia diventata insistente scorre sui ponti, dalla tuga di prora scende acqua a fiotti, cade in coperta con rumore soffuso sovrastato dal vento e dallo scroscio delle onde sullo scafo. Un rollio leggero accompagna ogni movimento, nessun fastidio, anzi, è un piacevole danzare immersi in una musica di naturale prepotenza, il beccheggio praticamente inesistente crea qualche piccolo sbuffo a prora, minute gocce formano una leggera nebbia che cela per un istante alla vista quanto sta avanti a noi e lo sciabordio che lo accompagna ci rende forti.

Noi siamo coloro che temiamo il mare ma abbiamo il coraggio di sfidarlo..

Poi tutto si schiarisce; il blu torna blu, il grigio torna grigio, il bianco ritorna ad abbacinare, il cielo si riprende l'azzurro che gli spetta e il calore torna ad allietare le anime. Nuvolette di vapore si alzano dalla coperta che muta colore pian piano e la grande nave grigia prosegue il suo cammino. Più forte che mai, più decisa che mai, più amata che mai.

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Colori mare

 

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Capo San Donato - Dario Bilotti

Ancora una storia di Dario Bilotti pubblicata sul "Corriere di Carmagnola"

capo san donato

Mi siedo su una scomoda panchina del lungomare di Finale, le doghe mi fanno male alle natiche, ma finalmente trovo la posizione giusta e me ne dimentico. E' sera, sono anche lontano dai lampioni che illuminano la passeggiata. E osservo il mare calmo, sono rilassato,  dopo una intensa giornata in barca mi devo fermare a pensare. Poca gente che passeggia, ma soprattutto lontana, quindi sono libero di concentrarmi sui miei pensieri.  Il sole mi ha seccato la pelle, il bagno in altomare mi ha depositato tanto di quel sale che mi pizzica il corpo. Tornato in barca, nelle calme acque del porto, mi farò una rigenerante doccia. Però sto bene, mi sento vivo. Mi sembra di fluttuare in aria come dormissi, o forse dormo, sono talmente immerso nelle mie cogitabonde elucubrazioni mentali che mi pare di essere in una bolla che impedisce la ricezione dei suoni.

Davanti una massa scura, un sipario nero copre l'immagine del mare e del cielo, come fosse tutt'uno, come fossi a teatro in attesa dello spettacolo. Una sottile striscia luminosa creata dalle  luci alle mie spalle illumina fiocamente i miei piedi, che sia veramente un sipario sul retro del quale gli attori si stanno preparando per la recita con la luce accesa e che trafila al di sotto? 

Alzo lo sguardo al cielo, una volta punteggiata da migliaia di brillantini  e una eterea pallida nuvola capitata lì per caso. Riabbasso lo sguardo e una luce lontana mi incuriosisce, in aria o in cielo? aereo a bassa quota o nave? Poi noto una piccola lucina verde quasi fagocitata da quella bianca, è una nave che sta mostrando il suo lato dritto. Mi piacerebbe esserci sopra per guardare la costa lontana e osservarne le luci che la illuminano. Quanto rimango sullo  scomodo sedile non lo quantifico, mi è preso un sonno improvviso e decido di rientrare. Stancamente mi avvio. Un venticello fresco mi crea dei brividi tuttaltro che fastidiosi, capisco che il calore accumulato in giornata mi sta lasciando. Mentre costeggio il lungomare, dalla passeggiata capto il leggero suono della risacca senza vederla, ma immagino la sabbia e le piccole conchiglie che rotolano senza sosta, avanti e indietro sospinte da piccolissime onde. L'ingresso del porto turistico mi accoglie sonnecchioso, silente. I moschettoni battono sugli alberi delle barche a vela con un flebile tintinnio, quasi inascoltato. Non voglio fare la doccia in barca, so che sulla spiaggia c'è una diffusore che concede acqua calda addirittura fino alla mattina e quindi dopo aver raccattato infradito e accappatoio mi ci dirigo. Nel buio più totale voglio provare a saggiare la temperatura del mare, è caldo e per chiudere degnamente la giornata entro in acqua, nudo, una sensazione splendida, ogni tanto mi giro verso terra per guardare se qualche ombra si avvicina alla battigia, nessuno. Nuoto a lungo senza perdere di vista la riva, non vorrei che la corrente mi spingesse fino a Savona, ma sapendo di essere all'interno di una piccola cala scarto il timore. Con calme bracciate   torno sulla rena, mi copro con l'accappatoio e mi dirigo alla doccia. Come supponevo l'acqua è calda, deliziosa. E ritorno al porto, avvicino la barca al molo tirando  la sagola, metto i piedi sulla passerella senza toccare il tientibene e scendo nel pozzetto di poppa, mi siedo su una poltroncina per asciugarmi  il capo, saluto un marinaio della Guardia Costiera che rientra e poi, vinto dalla spossatezza, raggiungo  il comodo letto a due piazze messomi gentilmente a disposizione dell'amico padrone dell'imbarcazione. Sono solo, come se ne fossi io il capitano, appoggio la testa sul cuscino e giusto il tempo di sentire un leggero rollio che mi si chiudono gli occhi.  Ma forse sono troppo stanco per addormentarmi. Mi giro e rigiro nel comodo giaciglio, dalla botola sulla testa, aperta, entra non solo  aria fresca ma anche rumori noti, conosciuti e mai dimenticati. La diga foranea, nonostante il mare  sia piatto amplifica il rumore della risacca, forse le rocce creano un brontolio tra le cavità presenti tra esse. Il fasciame delle barche in legno scricchiola conformemente al leggero movimento  della superficie del liquido elemento, mai fermo. Nel silenzio di questa notte ogni minimo rumore sembra enorme. Mi alzo nuovamente e mi risiedo a poppa, mi appoggio sul mancorrente  e getto uno sguardo in acqua. Grossi cefali e piccoli saraghi nuotano in branco attorno allo scafo, la poca luce di un lampione del porto ne esalta le figure. La catena del corpo morto a cui la barca è attaccata è ricoperta di alghe, la gomena d'ormeggio dalla bitta del molo a quella di bordo scorre nel passacavo d'acciaio con un leggero stridore, il tendalino che copre l'ingresso  della  sottocoperta si muove lentamente assecondando il leggero rollio, sento le ruote della passerella che scorrono sul cemento e mi accorgo di non averla  issata a bordo e quindi con non poco sforzo la sollevo sopra la poppa distanziandola dal molo. Faccio un rapido inventario delle manovre e quando sono convinto di essere stato un perfetto marinaio torno a dormire. Mi soffermo su un pensiero detto non so da chi, ma letto in più occasioni:“ come fai a spiegare il mare a chi ci vede solo acqua” e poi mi trovo  a giustificare per ipotetici curiosi che tutta la nomenclatura dei termini marinareschi  per chi ama il mare e vive il mare nella sua essenza è pura poesia e non spocchiose dimostrazioni di cultura per pochi eletti. E più mi incaponisco su questi pensieri, che forse non dovrò mai esternare, meno voglia di dormire mi assale. Ma non sono solo, dal cabinato di fianco una voce mi chiama. E' il  vicino di posto barca conosciuto in mattinata, anche lui è sceso dalla branda, pardon dal letto, per appropriarsi della fresca arietta che inevitabilmente soffia di sera sul mare e avendo notato la luce accesa della cabina fino a pochi istanti prima, ha pensato di scambiare quattro chiacchiere. Due parole sul tempo come vecchie comari al mercato e una comune esaltazione del ”salato sentimento” su cui stiamo galleggiando. Italiani, popolo di Santi e di Navigatori. Questa frase ha dato il via a un nuovo scambio di racconti su navigazioni varie e opinioni che si protrae almeno per una buona mezz'ora, ma un grosso sbadiglio improvviso mi avverte, contagio anche il  mio gentile  interlocutore e di comune decisione ce ne torniamo a nanna. Ma questa volta...buonanotte.    

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Dario caposandonato

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Vacanze sotto la neve - Dario Bilotti

Dal "Racconto del mese" del Corriere di Carmagnola, un'altra storia di Dario Bilotti

caminetto

Il racconto del mese... Vacanze sotto la neve

Entrò in casa, velocemente si spogliò e depose tutto il vestiario sul letto, si infilò nella doccia, si fece la barba, si vestì con abiti puliti e dopo aver preso la borsa con i suoi effetti personali e qualche cambio di biancheria intima, preparata la sera prima, uscì di casa. Come si suol dire la fretta gli mise le ali ai piedi. Fortunatamente abitava vicino alla stazione ferroviaria e questo gli permise di giungere al treno cinque minuti prima che partisse. Il viaggio fino al paese sotto le montagne durò un'ora. Sceso dal treno attese il pullman che lo avrebbe portato al paesino dove finalmente avrebbe riposato una settimana, ospite della sorella Francesca e del cognato Paolo e festeggiare l'imminente Natale e l'arrivo del nuovo anno. Altre due buone ore di torpedone lo attendevano. Si mise comodo vicino al finestrino con l'intenzione di leggere un po' sfruttando la poca luce diurna rimasta. Ben presto si addormentò; si svegliò alla prima fermata dove salì una marea di gente che riempì ogni posto disponibile. Una voce femminile lo distolse dai suoi pensieri chiedendogli se il posto accanto al suo fosse occupato. "Prego, si segga pure, è libero ''Il giovane notò subito il bel visino della ragazza che gli si sedette accanto dopo essersi tolta il piumino che l’avvolgeva; profumava di fresco, trucco ridotto al minimo, era veramente carina. Ma si rituffò nella lettura fino a quando di riaddormentò. Quanto tempo dormì non lo calcolò ma si destò sentendo il rumore del libro caduto sul pavimento e subito dopo vide la mano della ragazza che dopo averlo raccolto glielo porse.

"Mi scusi, sono talmente stanco che non riesco a tenere gli occhi aperti”

"Ma le pare, capisco" rispose lei. Il ghiaccio si era rotto.

"Visto che il viaggio sarà relativamente lungo, la tengo sveglio", continuò lei.

"Mi chiamo Elda, ho affittato un alloggetto a Boscosotto, una settimana di relax estremo con tanta neve attorno, spero, per dedicarmi follemente alla lettura". "Piacere, io sono Giacomo. Sto raggiungendo mia sorella alla frazione di “Betulle". Intervenne un signore seduto su uno dei sedili davanti ai loro che avverti Giacomo che alla frazione il pullman non arrivava, era oltre Boscosotto e che la strada era praticamente un sentiero sterrato talmente stretto che una vettura o saliva o scendeva, due contemporaneamente non ci stavano. Giacomo già lo sapeva, d'altronde il cognato aveva affittato la baita appunto per godersi le ferie in inverno e in montagna, e si ricordò che avrebbe dovuto chiamare la sorella per comunicarle l’ora d'arrivo. Cosa che fece, poco campo ma riuscì finalmente a prendere la linea. Apprese dalla viva voce di Francesca che la neve già scendeva copiosa da circa due ore, quello sciagurato del marito non aveva gomme termiche e aveva dimenticato le catene a casa. Aggiunse che aveva paura di viaggiare visto che la strada non si vedeva addirittura più. Un bel problema. Giacomo divenne nervoso e si chiese: questa è l'ultima corsa, se non viene a prendermi cosa faccio, dormo in piazza sotto la neve?  Elda si accorse dell'inquietudine del ragazzo e senza che lui le spiegasse il disagio, capì. Lo rassicurò che in qualche maniera avrebbero trovato una soluzione. Nel frattempo, come prospettato, la neve cominciò a imbiancare il paesaggio. Giunti finalmente a Boscosotto, Giacomo richiamò Francesca e questa, disperata, gli disse che mai e poi mai sarebbero scesi a prenderlo. Si scusò preoccupata perché non sapeva cosa fare, ma d'altronde il rischio era troppo. Elda decise d’impulso. “Dai Giacomo, vieni da me, ci sistemiamo almeno per stanotte in qualche maniera, non ho idea della casa, ma siamo giovani e ci adatteremo"Scesi dal pullman e scaricati i bagagli, cominciarono a chiedere ai paesani infreddoliti nell’unico bar del luogo la casa a cui erano destinati. Gentilmente li accompagnarono fino sull'uscio. Casa in pietra, portone in legno molto spesso e alquanto grezzo, dimostrando la bellezza della vetustà. La porta d'ingresso era aperta, come si usa ancora nelle zone in cui l'onestà è un principio di vita. Basta girare la maniglia. Entrati in casa attendeva loro una bella sorpresa. Tutto rigorosamente in legno, la cucina dotata di ogni cosa, un tavolo in massello spesso dieci centimetri, due sedie e due panche in fondo alla stanza quasi in un angolo e al centro una stufa a legna di ceramica con la canna fumaria che saliva e forava il soffitto. La stanza era enorme, la stufa era accesa, il legno crepitava nel forno della stessa e di fianco una gran-de cesta piena di legna da ardere. Il proprietario aveva pensato a tutto. Addirittura il frigo conteneva prodotti mangerecci di varia natura. Dal lato opposto del tavolo una scala, anch'essa in legno, conduceva al piano superiore. I due la impegnarono e aperta una porta ne videro altre due chiuse. Una conduceva alla camera, con un letto da una piazza e mezzo che odorava di legno, lenzuola pulite e un grosso armadio, vuoto. E poi il bagno, vasca, doccia, mobile con lavandino e specchio. Ma ciò che più rendeva fenomenale l'ambiente erano due grosse e pesanti tende che celavano due finestre, una che apriva lo sguardo su un pianoro che conduceva alla base della montagna e una con lo sguardo sulla piazzetta, dove due lampioni illuminavano con una luce rotonda e gialla il selciato interamente coperto di neve. Una vista fantastica. La canna fumaria anche qui nel centro stanza fungeva da diffusore di calore, infatti la temperatura era tale da poter permettere di stare in maglietta. Tornarono di sotto e si prepararono da mangiare. Nel mentre studiavano la sistemazione per la notte. Ulteriore telefonata di Giacomo alla sorella per tranquillizzarla e rimandare a poi le decisioni per i giorni a venire. Ormai la confidenza la faceva da padrone tra i due giovani. Avrebbero dormito lei sul letto e lui per terra su un piumone, relativamente vicino alla canna fumaria e coperto con un pesante plaid. Rimasero a parlare fino alle ore piccole, poi quando la stanchezza cominciò a farsi sentire decisero di andare a dormire, Giacomo voleva provare a farsi il bagno nella vasca, chiese il permesso alla sua gentile ospite e lo ottenne, attese che Elda si ficcasse, dopo le abluzioni, sotto le coperte e poi riempì di acqua calda l’enorme catino e ci si adagiò. Quando si rese conto che rischiava di addormentarsi in acqua a malincuore uscì. Si asciugò per bene, silenziosamente entrò in camera e si adagiò sul relativamente scomodo giaciglio. Si addormentò. Il problema fu un paio di ore più tardi, si svegliò, la temperatura era calata, occorreva attizzare il fuoco nel camino. Si alzò e scese al piano inferiore, infilò nel forno due bei ciocchi di carpino, attese che le fiamme avvolgessero la legna e tornò su a dormire. Si riaddormentò e questa volta lo risvegliò la voce suadente di Elda che lo invitò a dormire accanto a lei. Giacomo era titubante, gli sembrava di approfittare fin troppo dell'accoglienza, ma l'insistenza di Elda lo convinse. Lontano dal camino l’aria era fresca quindi tremante si infilò sotto le coperte. La simpatia e la gioventù ebbero il sopravvento. Fecero l'amore. Giacomo si addormentò per l'ennesima volta, felice e appagato iniziò a sognare.

Una voce lo chiamò:

"Giacomo, sveglia, sono le sei » e lui "Perché mi svegli?”.

"Devi andare a lavorare"

“Ah, già, grazie mamma”.

Dario viso Dario Bilotti

vacanze sotto la neve

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